normalità

Ascoltare la radio e scoprire che è sollevata questione di incostituzionalità su una legge della Repubblica italiana da parte dei giudici del tribunale di Milano, su cui la Corte constituzionale dovrà presto esprimersi in merito. Realizzare dopo pochi secondi che la legge di cui si parla è la legge 40 sulla fecondazione eterologa, e chiedersi se, nel caso, non ci si sarebbe potuto pensare uno prima di farla, due prima di firmarla con a fianco la Costituzione per una rapida verifica, e tre prima di spendere milioni di euro per un referendum pilotato verso l’astensionismo dai media e dalle alte sfere di un altro stato.
Fare la coda allo cassa ticket dell’ospedale, pagare il ticket e chiedere il codice per l’accesso ai servizi web collegati alla tessera sanitaria, e trovare un impiegato/a non capace di eseguire la procedura. Voltarsi e realizzare che la stanza è piena di cartelloni 70 per 100 e volantini che pubblicizzano i servizi web collegati alla tessera sanitaria, previa la semplice richiesta del codice agli sportelli abilitati. Interrogarsi dubbioso se per “abilitazione” i manifesti intendessero quella telematica.
Entrare in un bar per bere un caffè, e mentre lo sorseggi vedere comparire a fianco un uomo in giacca cravatta e ventiquattrore che alle 11 meno 10 minuti del mattino chiede una vodka liscia con ghiaccio.
Salire sul treno e dover aspettare che parta, in ritardo, perché pare sia salita una persona strana, ecco, proprio così, strana, e qualcuno deve aver chiamato la PolFer perché questa persona strana ha una cresta ossigenata in testa, parla da solo ed ogni tanto all’improvviso applaude senza un motivo, ed infine vedere la PolFer che lo obbliga a scendere perché non ha il biglietto. Rilfettere sul fatto che se io non avessi avuto il biglietto la PolFer non l’avrebbe mai saputo, il controllore nemmeno perché non è mai passato e, se anche mai fosse passato e l’avesse scoperto, avrebbe al limite staccato una multa e non mi avrebbe certo fatto scendere dal treno facendolo partire in ritardo.
Fare il viaggio in treno a fianco di una donna sudamericana che telefona incessantemente ad un elenco di numeri e destinatari che pare infinito, scritto su di un foglietto grande quanto il palmo di una mano, in cerca di un lavoro come badante.
Entrare dal panettiere nel preciso momento in cui una commessa in prova viene silurata dalla titolare dopo, scommetto quel che volete, non più di mezz’ora di osservazione, con la frase: “Mi dispiace S., abbiamo provato ma non ci siamo proprio e io non me lo posso permettere.
Arrivare in bicicletta sotto la pioggia davanti alla sbarra di ingresso dell’Ospedale, e dover scavalcare lo sparticorsia in plastica per entrare in contromano perché il casellante in portineria apre la sbarra solo alle macchine e non a quelli in bici con la mantella nera.

Una mattinata come tante, qui dalle nostre parti.

24 thoughts on “normalità

  1. Il vecchio davanti alla coop con le piantine del suo orto in piccoli sacchettini, vedere che le vende a poco con un viso triste e pensare che potrebbe essere noi, o nostro nonno, e asciugarsi una lacrima, e tornare indietro e comprare un gelsomino. Incontrare Cristina, congratularsi per la sua pensione, sentire che è un’esodata e ridere, e dirle “no devo toccarti perchè io un esodato non lo avevo mai conosciuto, allora esistete”. E il dentista che mi fa i complimenti, che denti così a posto se ne vedono pochi, “che se fossero tutti come te non mangerei” e uscire con la pulizia fatta e senza pagare.
    E scusami se ti ho invaso ma mi è venuto così, fratellone.

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    • macchéscherzi, dai! quale invasione… io me la conservo tutta, l’immagine del vecchio con i gelsomini, non solo perché qui davanti alle coop massimo che trovi sono fazzoletti e accendini. ma per la dignità, per diamine, che ce n’è davvero tanta.

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  2. a me queste cose danno un senso di apnea, quindi non ho nulla da dire. è che non mi andava di mettere un mipiace e basta, ma dirti che ho pensato bene alle parole che hai scritto.

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    • me lo chiedo sempre: ma quando clicchi quel “mi piace” su post che parlano di storie che invece non ti piacciono, che non avresti voluto leggere, si capirà? perché per me, quel segno di approvazione è al come quel qualcosa è stato scritto, per quel qualcosa che mi ha, anche esteticamente, colpito. non è banale, anche nello scrivere di cose spiacevoli, il saperle scrivere con delicatezza, con eleganza, con onestà. in ogni caso, grazie ad entrambi!

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    • ooops, grazie a tutti e tre, errata corrige, arrivato il tuo commento appena spedita la risposta al gatto (a ripensarci, comunque, non saprei quale delle vicende di stamani mi sia risultata più insopportabile. l’unica cosa di cui son certo è che la divisa, ogni volta, è ciò che mi provoca più rabbia…)

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  3. L’arroganza di chi indossa una divisa non la sopporto nemmeno io. Nemmeno chi blatera al telefono fregandosene del mondo (anche se questa donna cercava un lavoro la stragrande maggioranza delle persone lo fa parlando del nulla cosmico). Telefonate che durano un’ora per dirsi bischerate. E in treno si sente tutto nemmeno puoi ignorarle. Ma al terzo posto( quasi quasi al primo) metterei il casellante che non apre la sbarra ai ciclisti. Cazzo! Ma cosa ti costa pigiare un bottone?! Scusa lo sfogo ma io vado a lavoro a piedi e ci metto tre minuti. Incontro solo Sirio che torna dal suo pollaio ed ha sempre, dico sempre, il sorriso sulle labbra. Sirio ha 89 anni .

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    • ma che belle immagini che mi state regalando: dopo i gelsomini, sirio che torna dal pollaio col sorriso. le conservo tutte. insieme alle bischerate che durano un’ora intera, che offrono quel giusto di leggerezza (ma come ti capisco sull’odio nei confronti delle telefonate ad alta voce in treno!). sul casellante, hai ragione, solo che per fortuna non è sempre così, dipende da chi c’è in turno. oggi era quello sbagliato, ecco.

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  4. Mi chiedo che fine abbia fatto l’uomo elegante con la vodka liscia tra le mani alle undici meno dieci del mattino…
    Questa scena mi fa venire in mente una signora della mia zona, bellissima e sempre vestita elegante, che ogni sera dorme dietro un cassonetto sotto un pezzo di cartone da imballaggio.

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