un lavoro

Era inevitabile che prima o poi la domanda sarebbe arrivata, in una qualche scuola, da una qualche maestra, durante un qualche gioco collettivo: “Che lavoro fanno i tuoi genitori?“. È arrivata, in questi giorni appena passati, al centro estivo a cui M. sta partecipando. Immaginavo che, altrettanto inevitabile, sarebbe arrivata la sua non-risposta rispetto al lavoro del babbo: “Il babbo… lavora.“.
Eh. Già.
Preciso subito: niente sensi di colpa rispetto alla risposta. A parte il fatto che a quattro anni la considererei comunque legittima a prescindere, ho anche provato più volte a spiegare a M. quale fosse il mio lavoro, con l’intento sia di incuriosirlo sia di farglielo comprendere consapevolmente (implicito dire che l’obiettivo non fosse quello di far rispondere correttamente e mnemonicamente alla domanda della maestra); ho anche provato a portarlo sul luogo del misfatto, tra microscopi, computer, sequenziatori, piccìerre, pipette, gel di agarosio o un’infinità di altri strampalati ammennicoli (permettetemi l’autoreferenzialità). Rimane il fatto che, forse, l’argomento non sia proprio quel che si dice di facile spiegazione per un quattrenne. Avessi fatto il maestro, strada spianata. Avessi fatto l’architetto, o il benzinaio, o il bancario, o l’imbianchino, forse non sarebbe stato facilissimo spiegare ma certo sarebbe stato più semplice, ancorché non immune da qualche piccola distorsione – non necessariamente menzognera, per altro (“il babbo disegna le case”, “il babbo dà da bere alle macchine”, “il babbo prende i soldini delle persone“, “il babbo dipinge). Ma tant’è.
Il problema non è quello. Il problema, semmai, è identitario (anche volendo tralasciare il fatto che quello che svolgo per la maggior parte del tempo non sia l’unico lavoro, ma ce ne sia un altro a cui dedico tempo ed energie – la qual cosa, però, è specificamente personale ed esula l’argomento principale).
È un problema identitario per (molti di) coloro che si ritrovano immersi nel mondo della ricerca scientifica, un pot-pourri che raccoglie sotto lo stesso cappello medici, biotecnologi, biologi, bioinformatici, biostatistici, chimico-tecnologi-farmaceutici anche detti cìttìeffe, tecnici di laboratorio e così via in un elenco discretamente lungo.
Identità, e prospettive. Vai a spiegare che il mio lavoro non èma come è possibile che voi non siate ancora riusciti a trovare il gene che guarisce dal tumore?“. Vai a spiegare che il concetto di “pazzia di una cellula” forse non è nient’altro che il bisogno collettivo di catalogare un fallimento già scritto in partenza, stigmatizzandolo con un’accezione di negatività universalmente riconoscibile in un mondo che si trova così a suo agio nel creare corti dei miracoli. Vai a spiegare che il mio lavoro non solo solo topi di laboratorio, che non sono solo camici bianchi, occhiali trasparenti e pipette in mano come fanno vedere alle tivvù, o che la vecchia legge seiduesei è un miraggio nei laboratori non meno che nei cantieri. Vai a spiegare che i ricercatori non sono dei Mengele con il bisturi in mano pronti a vivisezionare ogni specie vivente che passa sotto tiro (vallo a spiegare soprattutto a quelli della Lega Anti Vivisezione, che nel curioso e labile confine posto fra lecito ed illecito hanno scelto che la Drosophila melanogaster, il moscerino della frutta, stia dalla parte degli organismi superiori non legittimamente vivisezionabili, mentre nessuna remora esiste nei confronti del sacrificio di Caenorhabditis elegans, ahilui, verme e parassita della società). Vai a spiegare in parole povere che il mio lavoro sono a volte centinaia, migliaia, milioni di dati, e tu ci sbatti la testa, ché le nanotecnologie del ventunesimo secolo hanno fatto un baffo alla teoria della complessità del secolo precedente e in alcuni giorni la ricerca è solo lotta impari nei confronti di risultati falsi positivi che sono per la statistica come per noi l’aria che respiriamo.
E forse, non solo questo. Non è meno complicato spiegare che il mio lavoro è per la stragrande maggioranza costituito da precari sottopagati che si occupano non solo di fare ricerca, ma anche di coprire le necessità diagnostiche delle strutture ospedaliere pubbliche o private, e sarebbe impensabile farne a meno. Che senza quei precari non avresti i risultati dei tuoi esami del sangue o la tua lastra refertata. Non è meno complicato spiegare che il lavoro che svolgo è anche, spesso, per gran parte del tempo, scrivere progetti per bandi pubblici o privati, il 90 per cento dei quali progetti (nella migliore delle ipotesi) non verrà approvato in base alla ferrea ed integerrima logica per cui “eh, niente, sai come funziona, non doveva essere assegnato al tuo gruppo ma a quello di Tizio“. O spiegare che il mio lavoro è cercare di pubblicare ricerche in un contesto nel quale la validità dei risultati è inficiata dalle non infrequenti parzialità della plutocrazia che gestisce le riviste scientifiche. Spiegare che, per molti ricercatori, questo lavoro è un macigno in un paese la cui religione – che s’è arrogata il diritto d’essere di Stato – non contempla l’esistenza di cellule embrionali che non abbiano di fronte a sé un futuro di aggregato antropomorfo.
Vai a spiegare che il mio lavoro è un riempitivo per le pagine domenicali dei quotidiani; o che, eterno smacco, non compare nei “menu a tendina” di nessun modulo online: quando un ricercatore deve compilare un form elettronico, sa già in anticipo che sotto la voce professione la scelta da indicare sarà “Altro“. Vaglielo a spiegare.

Il mio lavoro, alla faccia di tutto questo, è fascino. È saper porre una nuova domanda prima ancora che sia arrivata la risposta al quesito precedente. È non lacerarsi nei dubbi, ma saperli accettare come stimolo. È trovare quello che non stai cercando, e guarda te che se esiste il termine serendipità un grosso zampino, forse, ce l’ha messo proprio la ricerca – a far trovare la figlia del contadino nel pagliaio in cui cercavi l’ago.
Il mio lavoro è ostinazione, rispetto, onestà intellettuale. È rete e collettività più di quanto s’immagini, lontano dai titoli dei giornali.
È curiosità viscerale.
Ecco, tutto questo andatelo a spiegare a un bimbo di quattro anni. Ma prima spiegatelo a me, ché in fondo in fondo alcune cose, di quelle dette sopra, non le ho ancora capite nemmeno io.

45 thoughts on “un lavoro

  1. Ho parlato del “suo lavoro”, dato che in USA il ricercatore è visto come un lavoratore, con la mia amica di Boston e diceva, più o meno, quello che tu scrivi qui dei tuoi pensieri sul tuo lavoro (o non lavoro).

    Vorrei spiegarti tante cose ma, essendo un operaio del web, ricercherei alcuni termini in google, cosa che puoi fare anche tu 😉

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    • tanto di cappello per questo, e boston credo sia anche un contesto privilegiato (“le migliori menti della nostra generazione”…), anche se su tante cose riguardo alla ricerca, doveroso sottolinearlo, gli stati uniti non sono messi meglio di noi, anzi. soprattutto, imputo loro una pecca: aver “creato” la mentalità della competizione, o quantomeno averla alimentata in maniera insostenibile…

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  2. Guarda il lato positivo della cosa. Sempre meglio di: “Mio padre fa il disoccupato”, che era il leit motiv della classe che frequentavo alle elementari.
    (Tanta stima, comunque, visto che non è facile il lavoro-non-lavoro che fai, tra complotti biomedici, incursioni animaliste, tagli finanziari, apocalissi religiose e quant’altro.)

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    • è vero, anche se mai bisogna togliere dignità alla disoccupazione! (mi piace l’elenco che hai creato. secondo me si possono anche scambiare a piacimento gli aggettivi e funziona uguale: apocalissi biomediche, incursioni finanziarie, complotti religiosi, tagli animalisti… :-D)

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      • Infatti ho ritenuto fino ai 10 anni che disoccupato fosse un lavoro come gli altri, tanta era la convinzione dei miei compagni di classe nell’affermarlo.
        (Ahahahahah, non ci avevo pensato!)

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  3. che belle cose importanti e preziose “scatenano” i bimbi ! sì, perché così è per me questo post, in quanto spiega chiaramente quello che in parte supponevo, dandomi delle conferme (seppur amare) sulle svariate difficoltà e paradossi legati anche all’ antivivisezione. credo che dovremmo farci influenzare meno dall’informazione consueta (su ogni settore lavorativo) se non si rifà al sincero parere di chi esercita una professione per di più con una passione come la tua che dirompe dal testo. son felice di averti letto e di sapere che ci sono ancora persone così, che continuano a concentrarsi sul fascino di ciò che hanno scelto, sopportando “il resto” (sempre nella speranza di un miglioramento però eh!).
    p.s.: presto il tuo bimbo capirà che col microscopio si possono vedere cose invisibili ad occhio nudo e l’associazione col ricercare qualcosa sarà più semplice. sono certa rimarrà affascinato anche lui 🙂

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    • e sapessi quanto mi piace l’altro! ma quello sarà argomento di un prossimo post… (associazione di idee: mi hai fatto venire in mente una battuta se non sbaglio di groucho marx che faceva più o meno “questa cosa la capirebbe pure un bimbo di quattro anni. ecco, portatemi un bimbo di quattro anni che io non la capisco”. smentito e affondato! ;))

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  4. rispetto.
    tutti quelli come te che fanno questo “non lavoro” meritano più rispetto di tanti altri benemeriti lavori che consistono esclusivamente nel scaldar la sedia dove poggiano le loro inutili chiappe. pardon.

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    • caspita, apri una questione bella tosta: inutilità del lavoro in sè o atteggiamento da scaldino per sedie da parte del lavoratore? rispetto ai lavori, sono sempre un po’ restio a considerare dei lavori come inutili in sè e per sè, anche se ultimamente alcuni mi stanno facendo sorgere il serio dubbio…

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  5. io conosco bene una persona che fa la tua collega. e un giorno ha detto con il sorriso “fanqulo, mio figlio mi ha chiesto che lavoro faccio? e io gli ho risposto che la mamma fa la scienziata”. E quanto ha ragione.

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    • ecco, il fatto è che a me la parola “ricercatore”, anziché “scienziato”, anche etimologicamente parlando dico, piace una gran cifra di più. ma hai visto mai che in fondo abbia ragione lei… e poi “scienziato” è forse davvero più a misura dei sogni e degli immaginari di bambino.

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  6. Io non ho mica ben capito che lavoro tu faccia 🙂 però sento la passione che ci metti, l’onestà con cui lo fai, il rispetto del tuo ruolo. e mi basta (ma tuo figlio ti chiama “babbo” ? :-))

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    • ehm… faccio lo scienziato! 😀 (vedi suggerimento di edp nel commento appena precedente, nel caso prenditela direttamente con lei :-P).
      (p.s. “babbo” è il più semplice dei tanti modi bellissimi in cui mi chiama – radici toscane docent. diciamo che in ogni caso è il più comprensibile ai più ;))

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      • Un professore, che amo per il suo modo di sclerare all’improvviso, parla biascicando le parole, per poi inserire nei suoi discorsi deliranti frasi senza senso in inglese – tra l’altro ELISA lo pronuncia elàiza, if you know what I mean.

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      • eh allora però me le servite su un piatto d’argento! non ti dico la prima volta in cui sentii dire “icolai”. icolai?!? ci misi non ti dico quanto a capire che era la pronuncia inglese, dal latino, del batterio più famoso del mondo (che poi, essendo latino, avremmo pure diritto a rivendicare l’accentazione! :-D)

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      • Ecco. Testimoniano l’utilità di “il gatto è sulla tavola”.
        Bisogna imparare come si dice spazzolone, piuttosto. Leggiti un mio post che si chiama “Mops”, if you like.

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  7. Quando si scrive con l’anima in pugno escono fuori post come questo.
    Bello, bello.
    Si vede che l’argomento tocca nervi scoperti.

    In un paese dove la meritocrazia é nella tazza del cesso, la ricerca non ha futuro.

    Mal il gel di agsrosio te lo invidio, magari mi risolve il problema dei capelli ribelli.

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    • guarda, anche non fosse meritocrazia, basterebbe solo semplice *riconoscimento* del merito, la base del concetto, e sarebbe davvero già tanto…
      (ti giuro, non avevo mai pensato a questo utilizzo per l’agarosio, ma se ne avessi bisogno posso procurare volentieri, eh! :-D)

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  8. Perchè definirlo un “non lavoro” solo perchè non codificato in un sostantivo specifico? Io sono una sostenitrice dell’intelligenza superiore dei quattrenni!
    Mia sorella (che sai fa il tuo stesso lavoro) ha spiegato ai suoi figli:
    “La mamma è un ricercatore scientifico. Ovvero studia le cause delle malattie che non si possono ancora curare e cerca ciò che potrebbe renderle curabili”.
    La chiarezza è una bellezza che arriva a tutti! 😀
    I problemi annessi e connessi glieli eviterei ovviamente…precariato, dati, mancanza di finanziamenti, burocrazie e baronie, etc. Anche perchè son cose c,he ahinoi, potrebbero essere condivise anche da chi può dire “Mio padre fa il maestro elementare”!.
    M. può andare fiero di un babbo come te! 🙂

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    • ma guarda, alla fine ne sono convinto anch’io, la bellezza della sincerità e della chiarezza non ha paragoni, anche se ad un bimbo non arriva subito ma gli ci vorrà un po’ a capirla.
      ti dirò, forse in fondo in fondo lo stesso vale per i problemi collaterali: non saranno forse subito comprensibili, ma non per questo vanno taciuti (personalmente non li taccio, ovviamente in linguaggio “comprensibile”).
      grazie del sostegno!

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  9. Sostegno sostegnissimo! Ce n’è di bisogno sempre! E con tutto l’affetto… 🙂
    (i problemi collaterali li tacevo solo per l’età e per non mettere troppa carne al fuoco…poi certo andranno spiegati anche quelli! Figurati che io ho spiegato a mio figlio di 5 anni perchè ci stavamo separando io e suo padre. Non è stato difficile come credevo perchè davvero i bambini hanno una marcia nascosta. E la cosa ci ha ripagato perchè ha capito subito forte e chiaro che non era colpa di nessuno, soprattutto non sua e che le cose capitano indipendentemente dagli sforzi che si possono compiere…)
    😉

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    • altro argomento delicatissimo, soprattutto in relazione ai sensi di colpa…
      sul parlare di tutto, anche di questioni come gli effetti collaterali, finora ho trovato scuole di pensiero diametralmente opposte. personalmente, anche se tante volte è difficile, scelgo il parlare e spiegare sempre. poi, beh, il libretto di istruzioni dei genitori è noto che non esista, per cui non pretendo che sia verità assoluta, ecco… 😉

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      • Giusto, no, nessun libretto è vero…posso testimoniare anche io che nella mia esperienza il parlare di tutto (cose belle e cose brutte) con parole ed esempi semplici ha funzionato sempre. Mio figlio ha metabolizzato e non si è mai sentito “tradito”. Poi è una questione di equilibri…io conosco genitori che non hanno fatto vedere Nemo ai figli piccoli (4-5 anni) perchè lo trovavano un film pauroso!!! Ora io dico…ma farli crescere nel mondo di pan di zucchero fino a che non scoprono di persona che esiste il lupo cattivo non è forse più “cattivo” e perverso? 😉

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  10. Mia mamma mi ricorda ancora quando, alle elementari, e quindi un filino più grande, alla domanda “che lavoro fanno io tuoi genitori?” ho risposto: “la mamma fa le fotocopie e il papà conta i soldi” (leggi, lei impiegata, lui lavora in banca).
    Ogni lavoro nasconde dei lati che i bimbi non comprendono e che forse non comprenderanno per molti anni. Quando anche io ero nella infinita schiera degli impiegati non accettavo questa tremenda generalizzazione che significa tutto e niente e che comprende un’enorme quantità di sfumature lavorative, così ci mettevo circa tre minuti per spiegare che lavoro facessi, ad ogni adulto che me lo chiedesse. Tre minuti son tantini, eh. Fai tempo ad annoiarti.
    E credevo che un giorno, una volta laureata, potessi raccontare il mio lavoro in una sola parola: infermiere. Facile no? Eh già, ma tu, cosa ne sai di cosa fa l’infermiere oggi? Sai davvero che non è più il vecchio stereotipo del porta padelle – dai medicine – fai i prelievi? (non tu tu, tu in generale). E allora, anche qui, specifica in che area, racconta due cose, fai qualche puntualizzazione storico – legislativa.
    Ma per chi le fai queste cose? Perchè gli altri capiscano bene? O perchè ti senti avvolto in una nebulosa, di cui si percepisce solo una piccola percentuale, e il tuo personale bisogno di comprenderne ogni angolo ti rende necessario spiegare ad altri puntigliosi (e spesso non richiesti) particolari?
    E’ per M. che cerchi risposte, o per te?
    Un bambino di 4 anni, che dica ricercatore, medico, insegnante, barista, imbianchino.. ha davvero idea del concetto che esprime?

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    • bella e profonda riflessione. assolutamente d’accordo: come da premessa del post trovo più che legittimo che a quattro anni non si dia chissà quale significato alla parola ricercatore o a qualunque altro lavoro (ma non tanto per l’età, a quattro anni ho scoperto molta più consapevolezza di quanta potessi immaginare).
      forse a M. (e B., fra non molto) cerco semplicemente di offrire le provocazioni che questo mondo affascinante e bastardo ha offerto e sta offrendo a me. ecco, più che trovar risposte – che non ho (ancora?) avuto o che dubito avrò – forse, davvero, vorrei semplicemente insegnare loro a saper “stare” nelle domande.
      (certo che anche voi infermieri… un tempo c’erano gli infermieri e basta, ora gli infermieri professionali, gli oss, gli ausiliari.. poi per forza un quattrenne va in confusione! :-D)

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  11. con la scusa di tuo figlio hai compiuto una bellissima galoppata nel mondo misterioso del tuo lavoro rendendolo accessibile (e condivisibile) anche a noi profani.
    inutile dire che la parte che più ho apprezzato sono i paragrafi finali dove sulle ali della passione anche la scrittura si eleva, diventa trasmissione di parole e sentimenti (quel ” trovare la figlia del contadino nel pagliaio in cui cercavi l’ago.” è magistrale!)
    buon lavoro
    ml

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    • mea culpa, non l’ho messo virgolettato, grazie che me l’hai fatto notare. lungi da me appropriarmi indebitamente di un’idea che non è mia, per cui onore all’autore, il ricercatore biomedico j. comroe, che nel 1976 si espresse così, wiki docet: «serendipity is looking in a haystack for a needle and discovering a farmer’s daughter. »
      comunque hai pienamente ragione: i figli aprono davvero un sacco di riflessioni. buon lavoro a te!

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  12. Bellissimo articolo, però, una cosa, ma che lavoro fai? 😀

    Scherzi a parte:

    ” (…) Vai a spiegare che il concetto di “pazzia di una cellula” forse non è nient’altro che il bisogno collettivo di catalogare un fallimento già scritto in partenza, stigmatizzandolo con un’accezione di negatività universalmente riconoscibile in un mondo che si trova così a suo agio nel creare corti dei miracoli. (…) ” Ecco, questo vale tutto il post, e molto di più…

    Grazie.
    Buona giornata.
    r.

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ammennicoli di commento