indipendenze

Se c’è una cosa di cui non mi posso lamentare, in questo tugurio di precariato nel quale mi trovo, sono i pranzi con i colleghi. E, aggiungerei, nonostante tutto: nonostante si mangi regolarmente piuttosto tardi (ma si mangia, e non è scontato), nonostante ogni tanto l’argomento si sposti vertiginosamente su argomenti gossippari che mi rendono uditore passivo e particolarmente poco coinvolto, nonostante qualche (pur rara) volta compaiano spiacevoli luoghi comuni o pericolosi stereotipi – come in questa occasione già raccontata tempo fa; in ogni caso, mai è tarpata la bellezza del discutere. Il più delle volte sono anche semplicemente i racconti aneddotici a fare da filo conduttore: sia ieri sia oggi ad esempio siamo scivolati sulla buccia di banana dei viaggi in treno, quella buccia che non perdona – una volta che il piede ha preso il volo non ti fermi più. I viaggi improbabili, i finti controllori di reale provenienza psichiatrica, gli interminabili trasbordi in viaggi della speranza su bus antidiluviani durante i lavori per la nuova ferrovia, quando c’era il binario unico e bisognava rifare il ponte sul fiume; e poi, ancora, i tempi in cui le porte dei vagoni si potevano ancora aprire dall’esterno, mica come in quelli ipertecnologici di adesso, i tempi in cui si poteva saltare sul predellino del treno in corsa dopo esserti catapultato in bici in stazione e quindi scapicollato per il sottopassaggio, sciorinando ogni tipo d’improperio nei confronti di un avverso destino di cui, in realtà, solo il tuo ritardo era responsabile. Solo un’improbabile associazione d’idee (ancora fatico a ricostruirla) con i cani Basset-Hound ha fermato il revival ferroviario.

Ad ogni buon conto – e perdonate la lunga digressione iniziale – tra gli argomenti di oggi quello più importante, che ha concluso il momento conviviale, è stato il racconto di una collega sulle vacanze del proprio figlio più grande, di dodici anni. Vacanze non per tutti, ma specificamente rivolte a ragazzi affetti da patologie oncologiche ed ematologiche, o a pazienti oncologici liberi da malattia ma con sofferenza psicologica post-nosocomiale, dovuta appunto a lunghi periodi di ospedalizzazione ed a procedure mediche o chirurgiche invasive, fisicamente e mentalmente provanti. Al di là dell’obiettivo principale dei campi, quello della “terapia ricreativa”, quello di proporre attraverso il gioco, l’arte e lo sport un punto di vista diverso sulla malattia, quello di dedicarsi alla fiducia nelle proprie potenzialità, mi ha colpito un aspetto: ai ragazzi – e non di meno, conseguentemente, ai genitori – è richiesto per una settimana di rimanere distanti dalla tecnologia in ogni sua forma. Niente cellulari né smarfòn, niente tablet né computer. La comunicazione con la famiglia, in caso di urgenza, avviene via fax.

Sono rimasto con un interrogativo, ripensando alla mia adolescenza ed ai miei vent’anni, a quando le mie conquiste furono prima le vacanze lontane dai genitori, e poi solitarie in tenda, e poi solitarie in giro per l’Europa, o scavalcando il Mediterraneo ed il Sahara pretendendo di non essere cercato neanche tramite qualche (improbabile, per altro) connessione telefonica. Resto con il dubbio se, per molti ragazzi di oggi, non dovrebbe essere quella dalla tecnologia, anziché dai genitori, la nuova frontiera dell’indipendenza adolescenziale e post-adolescenziale; non soltanto quando una malattia importante arriva a segnare un cammino.
Resto con il dubbio, ma per intanto mi cullo nella memoria le conquiste vagamente luddiste dei miei vent’anni.

34 thoughts on “indipendenze

  1. non sono solo i ragazzi ad essere dipendenti dalle connessioni, anche noi genitori. siamo abituati a sentirli spesso e con ansia. problema che i nostri genitori non avevano con noi, e così credo che l’ultima generazione “libera” sia stata proprio la nostra.

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  2. è che non sono più i nostri tempi, fratello, anche io una volta ero come te, ma ora se non sei oncologico, manco ti passa per la testa di stare senza il tablet, e pensa che mi tengo lo smarfon rotto da un mese perchè darlo in riparazione dieci giorni non mi va…..(finti controllori di provenienza psichiatrica qui, comunque, ci manca).

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    • sì, questa cosa la capisco perfettamente e la condivido – e ti dirò di più, i tablet sono entrati anche nei reparti di oncologia per tutto quello che riguarda il sostegno psicologico alla malattia: mi aspetto a breve che vicino a musicoterapia o aromaterapia comparirà il neologismo ‘tableterapia’ o ‘ipadterapia’.
      il punto però, per me, non è solo una questione di ‘nostalgia’, ma la domanda: l’essere ‘sempre connessi’, lo smarfòn, ha migliorato la qualità della nostra vita? io credo che il discrimine, e ciò che può giustificare la dipendenza, stia davvero quasi tutto lì
      (p.s. ma tu dovevi vederlo quell’ometto che passava per tutti i vagoni chiedendo i biglietti e dando delle multe immaginarie a chi non glieli mostrava!…)

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      • io non so, credo sia facile cadere nella dipendenza del sempre connessi che ripara dal male che ci affligge più di tutti: la solitudine. Si stava meglio quando si stava peggio, o forse no, non lo so. (solidarietà totale all’ometto, che se lo rivedi digli che faccia un salto qui da me)

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      • il dubbio su questo rimane anche a me, te l’assicuro. non a livello individuale, ma forse perché ho la fortuna di non soffrire, o aver mai particolarmente sofferto, di solitudine, anzi. ma che sia una brutta bestia ne sono certo…
        (sai che da diverso tempo non vedo più l’ometto vestito di rosso? questo sì, fa parte degli interrogativi grandi sulla solitudine, e viene spontaneo chiedersi dove sarà adesso…)

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  3. credo che l’iniziativa di stare una settimana scollegati da tutti gli strumenti citati sia in parte “disintossicante”, in parte illuminante. solo quando non si ha qualcosa se ne vedono, ascoltano, sentono e capiscono tante, ma proprio tante altre. bel post! 🙂

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  4. Secondo me ci si può provare a scollegarsi. sì insomma Adesso il tempo è questo ma credo sia una bella sfida soprattutto con se stessi. (riguardo alle opportunità di rigenerazione per bambini e adolescenti malati oncologici conosci la dynamo camp che è qui dalle mie parti?)

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    • caspita, no, non conoscevo dynamocamp, ho dato un occhio al volo adesso e mi sembra sia molto simile all’associazione trentina a cui si è appoggiata la mia collega. ma è proprio nel tuo comune o sbaglio? che grandi, caspita, tremilacinquecento bimbi in pochi anni… (p.s. e quanto, quanto, quanto grande può essere un bimbo di dieci anni di fronte ad un tumore, non ti sto a dire, che qui abbiamo una stretta allo stomaco ogni volta che ci pensiamo).

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  5. sai che all’università ho fatto un esame in cui si analizzava (tra le altre cose) il cambiamento del concetto di luogo negli ultimi decenni, messo in discussione prima dalla radio, poi dalla televisione e ora dal web che l’ha reso praticamente inesistente. e pensa che l’ho fatto dodici anni fa, che il web non era ancora così portatile…
    è bello che quei ragazzi abbiano un luogo specifico in cui ricostruire se stessi, un luogo con dei veri confini e veri limiti per testare e scalfire i propri.

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    • che bello quello che tu abbia colto anche quest’aspetto, l’avevo lasciato un po’ perso fra le righe ma è una cosa che sento davvero tanto. riconoscere i limiti ed i confini per riuscire a superarli (tra parentesi: è una delle sfide più difficili che cerco di proporre nei percorsi teatrali).
      senti, hai un testo di riferimento per l’esame che avevi fatto in università? mi interesserebbe molto.

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      • sai che c’ho pensato bene e non ne vengo a capo? sono sempre più convinta che fosse un capitolo di un libro, ricordo proprio l’analisi del concetto di “stanza” (camera) nel tempo da metà ottocento ad oggi. c’era inoltre una parte legata al ruolo della casa per la donna, da luogo di chiusura e termine dei rapporti, a luogo di apertura e legami. il testo proprio non lo ricordo, sempre che io non stia facendo un mix tra vari esami…

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  6. Ti ho letto con attenzione, naturalmente da uno smàrfon camminando. una cosa però la trovo assurda: la comunicazione via fax con le famiglie in caso di urgenza…e perchè non usare il telegramma o dei piccioni viaggiatori? un po’ di luddismo riequilibratore ok, ma non esageriamo…

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    • ecco, in tutta sincerità la parte del fax ho fatto un attimo fatica a capirla anch’io, ma credo (anche se non sono sicuro di aver capito bene dalla mia collega) sia dovuto principalmente a due motivi, uno quello di garantire ai ragazzi la presenza ‘silenziosa’ dei genitori, che possono far avere loro pensieri e riflessioni, l’altro l’eventuale necessità di comunicazioni scritte in caso di questioni mediche (terapie, etc.), e nel luogo in cui si tiene il campo non c’è fisicamente un pc, neanche per gli organizzatori.
      (parentesi, a proposito di camminare smarfònando: stamani, mannaggia, non avevo dietro la macchina fotografica, c’era un’immagine da paura sul viale all’uscita della stazione, un flusso di persone che camminava con lo smarfòn in mano ed in mezzo una, l’unica, con in mano un libro aperto…)

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  7. Io sono davanti al PC tutto il giorno per lavoro. Torno a casa e accendo il Mac. Rischio un’esposizione di 15 ore al giorno, minimo. Mi accorgo che ho accesso a informazioni rapide ma raramente profonde, che la mia capacità di concentrazione decresce, che “perdo” un mucchio di tempo in niente. Ultimamente ho ridotto la dose casalinga: ci provo e complice il diminuito tempo libero spesso ci riesco ma continuo ad essere dipendente. Ci sarò anche io, nelle comunità.

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    • a questo proposito: noi qua s’è davanti al pc tutto il giorno, ed essendo struttura pubblica sarebbe prevista una visita di controllo oculistico annuale con i medici del lavoro. ecco, tu li hai mai visti? noi no. funziona uguale anche da te?

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  8. Dovresti venire in vacanza con noi per vivere la dicotomia ieri – oggi con i tuoi occhi.
    Io, genovese dentro, in vacanza abbandono cellulari e altre tecnologie (beh, quasi tutte, per comodità ormai viaggio solo con e-book – poco peso, taaaaanti libri) giustificando la cosa come “eccessivo ed inutile costo aggiuntivo del roaming internazionale” e mi limito a chiamare i miei genitori ogni 2/3 giorni basandomi sul vecchio proverbio “nessuna nuova, buona nuova”.
    Mio marito invece non abbandona mai il suo melafonino, la sua connessione dati, FB e altri vitali social, i messaggi e le telefonate, nonostante il mio manifesto disappunto “la tua famiglia è qui in vacanza con te, che bisogno hai di portarti tutti gli altri con noi?”

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    • ecco, in questo noi non possiamo lamentarci. quando siamo via se non ci ricordiamo di chiamare noi i nonni per sapere come stanno, fosse per loro il più delle volte non ci sentiremmo… all’ibùk, invece, ancora non mi sono convertito. troppa dipendenza da cartaceo…

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